I pregiudizi cognitivi sono un sottoprodotto del tutto naturale del funzionamento del nostro cervello. Di cosa si tratta? E’ presto detto: ti è mai capitato di avere quella fastidiosa sensazione di aver fatto una cazzata? Acquisti impulsivi su Amazon (pare che siano sempre di più e moltissimi gli ordini di restituzione post-buy), sgarri alimentari, che vanno ad aumentare non solo i chili di troppo ma anche mal di pancia e sensi di colpa, impegni disattesi o procrastinati, reazioni emotive eccessive che spingono a un “vaffa” al momento sbagliato, sono molte le decisioni inopportune che si possono prendere al momento sbagliato. Singole azioni che a volte poi tendono a cristallizzarsi in atteggiamenti, abitudini che a loro volta alimentano, e vengono alimentati, dai pregiudizi. La domanda è: perché lo facciamo, e chi è più soggetto a questo tipo di errore cognitivo-comportamentale?
I pregiudizi cognitivi non sono intrinsecamente generazionali; vale a dire, le persone di una generazione non sono implicitamente più propense a sperimentare un pregiudizio cognitivo rispetto a un’altra. Comunque per tutte, schemi di pensiero e scorciatoie mentali, adeguatamente compresi e riorientati, potrebbero rivelarsi strategicamente utili per impostare al meglio le scelte di vita.
Di questo si tratta, di strategia.
Come imprenditori, uomini d’affari, leader di successo, influencer del nostro gruppo, o giovani alla ricerca di un posto nel mondo, vogliamo credere di essere persone completamente razionali, che prendono decisioni basate sulla logica e sulla capacità di pensiero critico. Eppure, secondo l’economista vincitore del premio Nobel, conosciuto ai più nel settore della formazione e del management, il Dr. Daniel Kahneman, che ha studiato i pregiudizi cognitivi con il compianto Amos Tversky, in realtà ci affidiamo quasi sempre molto meno alla logica nei nostri processi decisionali di quanto probabilmente ci accorgiamo o siamo disposti ad ammettere.
Ad esempio, l’effetto carrozzone, o effetto bandwagon, è la considerazione secondo cui le persone spesso compiono alcuni atti o credono in alcune cose solo perché la maggioranza della gente crede o fa quelle stesse cose. Immagina quindi un pullmino di quelli Wolksvagen anni ’60 con tutti i suoi passeggeri all’interno e tutti che viaggiano nella stessa direzione. L’effetto carrozzone ci rende più propensi a credere a qualcosa che le persone intorno a noi credono e questo perché siamo naturalmente “cablati” per funzionare socialmente all’interno di un contesto di gruppo.
Va notato che alcune generazioni, nella fattispecie i millennials, ovvero la generazione di post-teenager nati tra il 1981 e il 1996 (coloro che hanno compiuto il loro primo od ultimo anno da teenager (età 13-19) durante il corso degli anni 2000), sono più vulnerabili a pregiudizi cognitivi in aree specifiche della loro vita, a causa di stereotipi generazionali. Nello specifico, i millennial, rispetto alle loro controparti generazionali più vecchie, tendono a essere più egocentrici, ovvero, vogliono essere autosufficienti e perseguono l’indipendenza. Una cosa del tutto naturale per le nuove generazioni di qualsiasi epoca: si chiama processo di emancipazione. Tuttavia, questa dimensione rende anche i millennial particolarmente vulnerabili ai pregiudizi.
Stabiliamo cosa sia un pregiudizio cognitivo: la tendenza a interpretare in modo distorto i fatti e le esperienze, perché frutto di un processo elaborativo parziale e illogico. Cosa che porta anche ad agire in modo spesso poco efficace, perché quando si è nel vivo emozionale del momento di una decisione complessa, si tende a prendere in considerazione solamente una parte del contesto. Si tende, cioè, a essere ciechi di fronte ai presupposti nel loro variegato insieme.
I pregiudizi cognitivi sono spesso sconosciuti e non rivelati, e ne siamo tutti suscettibili. Ad esempio, è un fatto che i millennial (e non solo loro) amino i social media: l’88% dei millennial riceve regolarmente notizie da Facebook e il 57% scopre nuove notizie almeno una volta al giorno. Non c’è niente di intrinsecamente sbagliato in questo, e in effetti, può essere anche molto vantaggioso (soprattutto se si considera che nella classifica 2020 realizzata da Reporter Without Borders in merito alla libertà di stampa nel mondo, l’Italia è solo al 41° posto, dietro a tutte le altre maggiori potenze europee o Paesi in via di sviluppo come la Namibia e il Burkina Faso); i social media sono ciò che ci unisce più velocemente gli uni agli altri e sono uno dei modi più efficaci e immediati per ottenere nuove informazioni.
L’effetto ambiguità: evitare gli sconosciuti
Qual è il valore di un’informazione ottenuta in questo modo? Traducendo: possiamo fidarci di quella notizia scovata sul nostro social preferito? Ovviamente, più la fonte di quell’informazione è per noi attendibile, più ci fidiamo. Un primo problema alla base dei social network è che, anche se la fonte diretta è attendibile per noi, quello che ha postato la nostra fonte diretta viene spesso condiviso da altre fonti, in una catena di condivisioni di cui è difficile avere diretta cognizione.
L’effetto di ambiguità è l’equivalente della vecchia massima “meglio il diavolo che conosci che il diavolo che non conosci”. Qualcosa che ti fa aggrappare a opzioni conosciute ed evitare quelle che non sono familiari, anche se nessuno può in effetti dirti quali delle due sia davvero la più attendibile. A questo problema se ne aggiunge uno correlato: Facebook e altre piattaforme di social media utilizzano algoritmi di feed di notizie per generare elementi (post) che sa che desideri vedere. Esamina gli articoli passati che ti sono piaciuti o a cui hai reagito, così come gli articoli condivisi dai tuoi gruppi interni, e cura in modo specifico gli articoli che pensa ti piaceranno. Ciò si traduce in una sorta di “effetto eco” in cui è molto più probabile imbattersi nel bias di conferma, ovvero, entrare in contatto con informazione già allineate con le tue nozioni e aspettative preconcette, piuttosto che articoli, post e notizie che sfidano le tue prospettive.
Carsten Eickhoff, docente alla Brown University, ha studiato i pregiudizi cognitivi, compreso l’effetto di ambiguità, nel contesto del crowdsourcing (richiesta di idee, suggerimenti, opinioni, rivolta agli utenti di Internet in vista della realizzazione di un progetto o della soluzione di un problema). Ha spiegato che le informazioni mancanti rendono le decisioni molto più difficili, a volte impossibili, mentre allo stesso tempo alcune delle opzioni conosciute appaiono molto meno allettanti. Il risultato? Si può rimanere bloccati in una sorta di limbo, incapaci di prendere una decisione che sentiamo appartenerci veramente.
Ciò è particolarmente dannoso a causa del bias di conferma , che ci fa valutare in modo ingiusto le informazioni che sembrano dimostrare concetti in cui già crediamo. Tutti hanno una sorta di parametro a cui tendono a ricorrere per prendere decisioni soprattutto in contesti in cui percepiscono che mancano informazioni vitali. Questo parametro si è probabilmente dimostrato abbastanza utile nel corso della vita, ma potrebbe non essere efficace come pensiamo. Di conseguenza, sta diventando più importante che mai, soprattutto per chi è alla ricerca di nuove ipotesi e nuovi strumenti affidabili di orientamento, quindi per i millennial, mettere in discussione le proprie ipotesi, sfidare le proprie convinzioni e parlare intenzionalmente con le persone con cui non sono d’accordo per ottenere nuove prospettive.
Il problema: ogni decisione è potenzialmente diversa dalle altre, per cui può richiedere nuove valutazioni. I bravi leader sanno come valutare ciò che è importante in ogni situazione e prendere la decisione giusta in base ai criteri rilevanti per quella situazione. La soluzione: utilizza un approccio di squadra per valutare i dati e le informazioni alla base di qualsiasi grande decisione che è necessario affrontare, soprattutto nel settore professionale. Valuta le incognite in particolare e poniti sempre queste domande: Cosa non sai? Quali informazioni mancano? Come puoi ottenerle, o ottenerne di migliori?
Bias di sopravvivenza: un ulteriore livello di approfondimento.
I millennial sono un gruppo diversificato in termini di successo professionale. Mentre ci sono molte storie di giovani imprenditori che ottengono successi da record, sappiamo anche che la disoccupazione giovanile è più del doppio della media nazionale. Secondo i dati Istat la disoccupazione giovanile oggi è al 27,6%. Come se non bastasse il rapporto pubblicato dal Cnel lo scorso dicembre ha rilevato una diminuzione di 400mila occupati tra i 15 e i 24 anni dal 2008 al 2019. Quanto a occupazione giovanile, l’Italia è agli ultimi posti in Europa, mentre ha un primato di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Su questo fronte, l’Italia primeggia nel ranking europeo con un 29,7%. Un Paese tra i meno floridi in termini di opportunità per i propri giovani, basti considerare che dal 2011 al 2018 il numero di aziende under 35 italiane è diminuito notevolmente, di circa il 19%.
Di conseguenza, abbiamo molti millennial “falliti” che guardano a quelli di successo come modelli di status da emulare. Sembra una buona cosa, ma può rendere particolarmente vulnerabili a qualcosa chiamato pregiudizio di sopravvivenza. Il bias di sopravvivenza è essenzialmente un errore di campionamento; guardare solo i membri di successo di un dato gruppo, priva di informazioni critiche sugli altri membri che non ce la stanno facendo. Per meglio chiarire: soprattutto i millennial vivono in un perenne bias cognitivo per via del quale distorcono una realtà nella quale è fondamentale rappresentarsi vincenti e utilizzano i loro account social come mezzo privilegiato per darne contezza al loro gruppo. In realtà, statisticamente parlando, sono giovani alla ricerca di identità, di lavoro, di status che vivono condizioni precarie. Sui social si scatena dunque una “epidemia” di vite brillanti, le succitate informazioni primarie dirette, alle quali tendiamo a credere e che alimentano questo bias universalmente.
Quando si ha a che fare con i social media e, in generale, con le nostre fonti primarie di informazioni, è probabilmente molto più saggio promuovere ciò che il buddismo definisce “la mente del principiante”: uno stato d’animo malleabile, curioso e aperto che ci aiuta ad apprendere nuovi argomenti e abilità. Un po’ come il socratico “so di non sapere”, che porta al confronto con curiosità, facendo domande, ponendo questioni, con apertura al dibattito e atteggiamento indagatore, che tende, cioè, a svelare “l’invisibile dietro al visibile”. È molto difficile lasciarsi ingannare da pregiudizi cognitivi quando il tuo obiettivo è imparare nuove informazioni invece che quello di avere ragione o farti tornare una visione “comoda” delle cose.
Tutti hanno pregiudizi. Non sono un segno di debolezza. Il punto debole per i millennial, come per molti altri, sta nell’ignorare l’esistenza e la naturale coesistenza permanente con queste distorsioni cognitive (per una lettura illuminante su questo aspetto, il libro di John Barg “A tua insaputa“). Diventare semplicemente consapevoli dei pregiudizi a cui si è inclini è un enorme primo passo per contrastarli e vincere al gioco dei social, della vita, del futuro.