Mafia. Un male antico della nostra Italia. Un male che limita i movimenti, le iniziative, il lavoro, la costruzione di futuro. E mentre il tempo scorre, gli anni passano e “il male” cambia forma, scopriamo che una nuova realtà nasce dalle ceneri, per carità, ancora calde e con qualche tizzone ardente, della vecchia. Un articolo su terrelibere.org inizia così: “Hanno rivitalizzato il centro storico di Palermo, nella città vecchia si convive senza paura dello straniero. I figli degli stranieri riescono a scuola spesso meglio degli italiani. Ma a comandare in quei quartieri sono sempre i boss della mafia”.
Le contaminazioni etniche e culturali non portano solamente cose negative alle nostre latitudini. E’ vero, con l’immigrazione non arrivano solo uomini e donne di buona volontà, anche se questi sono la maggior parte, come succede d’altronde in ogni gruppo sociale, dove è solo una piccola minoranza a evadere dagli schemi dell’ordine e dell’integrazione. Purtroppo sappiamo, grazie ai risultati delle ultime inchieste della Dda di Napoli, che la mafia nigeriana collabora con la nostrana a Palermo, e questo è un dato che va sottolineato. Ma sappiamo anche che chi è arrivato dall’Africa sub sahariana, da Eritrea ed Etiopia, da paesi asiatici come il Pakistan, il Bangladesh e lo Sri Lanka, ha contribuito positivamente negli anni a restituire il centro storico alla città. I loro figli, le cosiddette “seconde generazioni”, nati in territorio italiano, sono integrati e motivati, spinti da una voglia di rilancio dimostrata anche dal loro applicarsi negli studi e nella comunità (si distinguono spesso tra i migliori studenti). Non del tutto viene colta dai palermitani del centro storico la loro portata innovativa. Per molti sono ancora tutti indistintamente “i turchi”. Ma loro sono “le comunità di immigrati che a partire dagli anni Ottanta si sono insediate nei quartieri popolari famosi per i mercati tradizionali: da Ballarò alla Vucciria al Capo. A Palermo c’è anche Chinatown in via Lincoln, nei pressi della stazione ferroviaria e in città vive la comunità Tamil più numerosa in Italia con circa tremila persone. Una realtà variegata e spesso sottovalutata a causa dei numeri ridotti rispetto al fenomeno migratorio presente nelle città del Nord.”
Palermo è diventata la patria di migliaia di africani, fedele alla sua identità di crogiolo culturale che fin dall’antichità l’ha caratterizzata e che negli ultimi anni si è evidenziata grazie alla sua propensione all’accoglienza grazie anche al sindaco Orlando Leoluca. In effetti, migliaia di migranti africani sono passati attraverso la Sicilia diretti verso il nord Europa, ma ciò che spesso si dimentica è che molti africani rimangono sull’isola diventandone di fatto parte integrante e contributiva. La stessa cosa succede nel resto d’Italia, come d’altronde è sempre successo nella storia. I fenomeni migratori hanno sempre fatto parte del DNA degli esseri umani. Siamo nati cacciando e spostandoci dai territori meno accoglienti ai più profittevoli in termini di sopravvivenza. Sempre alla ricerca di acqua, cibo, climi migliori. Solo poi l’uomo ha conosciuto l’agricoltura e l’attitudine sedentaria. E solo a quel punto ha sentito la necessità di proteggersi dalla minaccia esterna, di altri uomini alla ricerca delle stesse cose: un luogo migliore dove vivere.
Aiutateci a casa nostra, il libro dell’economista Nicola Coniglio, analizza proprio questo: l’impatto reale degli immigrati sull’economia italiana. Oltre i confini e i porti che siamo così determinati a chiudere, ci sono realtà che hanno bisogno di forza lavoro, di ricambio, di spinta dal basso. I dati statistici parlano chiaro. Ad esempio, il Dossier statistico immigrazione 2019, presentato lo scorso anno a Torino e incentrato sul lavoro, descrive una realtà complessa, fra desiderio di integrazione contrapposto agli ostacoli burocratici. “L’impatto economico dei flussi migratori – spiega Coniglio, docente di Politica economica dell’Università di Bari – è influenzato dal tipo di politiche migratorie. Credere che un sistema economico sia un’unità statica e che esista un numero fisso di opportunità lavorative è un errore”. Al contrario, come dimostra la storia delle grandi metropoli mondiali, da New York a Pechino, “l’afflusso di nuove risorse attrae capitali e investimenti”. Ci vuole tempo, certo, ci vuole volontà. Ma soprattutto, ci vuole “mentalità”. La percezione del migrante da parte di chi lo accoglie fa la vera differenza. Se questo viene vissuto come una minaccia, come una risorsa, come una normale conseguenza delle cose che cambiano e che sta a noi decidere se farle cambiare in peggio o in meglio. Si tratta di superare la narrativa, ancora dominante, che classifica gli immigrati come problema di sicurezza, di occupazione, come vittime da proteggere o da tenere separate.
Da terrelibere.org: “Più che integrazione, c’è una pacifica convivenza, ogni gruppo tende a fare comunità a sé, la piazza non è interculturale, è multiculturale” spiegano i volontari del centro salesiano Santa Chiara a Palermo, nel cuore pulsante di Ballarò, nello storico quartiere dell’Albergheria.
In nessun luogo la presenza africana è più visibile che nel quartiere Ballarò di Palermo, che un tempo era l’angolo ruvido della città con associazioni mafiose di lunga data (Ismail Einashe, giornalista)
Un incontro, allora, più che uno scontro? Sicuramente uno scambio quotidiano che avviene naturalmente nelle strade, nei mercati, nei locali. E così, un caldo venerdì sera a Palermo è possibile incontrare dei musicisti che suonano canzoni africane, mentre una improvvisata ballerina si muove al loro ritmo. Il tutto avviene spontaneamente nel vivace mercato all’aperto di La Vucciria.
La realtà: i migranti sono un’offerta di lavoro che si dirige dove c’è più richiesta. Lo dicono le percentuali: i cittadini non comunitari residenti ad inizio 2017 nella provincia di Milano erano circa 338 mila (il 10,4% della popolazione) contro i poco più di 10 mila della provincia di Reggio Calabria (l’1,9% della popolazione). Nel triennio 2014-2016, la Germania ha accolto un numero di immigrati quasi sette volte superiore a quello del nostro paese: 5,1 milioni di immigrati contro 761.800 dell’Italia. Ci si chiede, allora, come sia possibile che la Germania rimanga un Paese riconosciuto come più prospero, capace di accogliere anche la domanda di lavoro di molti italiani, che, non va dimenticato, sono migranti allo stesso modo: più di 200.000 persone partite dal Belpaese hanno cercato nuove opportunità altrove nel 2018. Inoltre, per via della forte specializzazione settoriale dell’impiego, immigrati e nativi nella maggior parte dei casi svolgono funzioni complementari e non concorrenti. Basti pensare agli impieghi come badanti, collaboratori domestici e braccianti.
Si legge nell’articolo di terrelibere.org: “Ti inserisci nella repubblica autonoma di Ballarò, è forte la distinzione tra chi abita qui e chi è di fuori, è un mondo dentro la città” specifica il salesiano Don Giovanni D’Andrea. Basta fare un giro per le strade per vedere che accanto ai banchi caratteristici del mercato con le primizie siciliane sono nati molti african market gestiti da ghanesi e negozietti indiani. La sera, dopo la chiusura del mercato, la piazzetta di Ballarò diventa territorio degli africani, seduti fuori a bere una birra stout, spesso insieme agli italiani. Ma quello che a prima vista può sembrare un paradiso della convivenza nasconde una realtà molto più complessa. Gli stranieri approdati in un centro storico degradato, hanno contribuito con la loro presenza e le attività commerciali a restituirlo alla città.”
E così succede che, durante una passeggiata nel mercato di Ballarò, i suoni e gli odori della vita quotidiana avvolgono i suoi abitanti in un nuovo vortice vitale, che include nuove realtà commerciali e culturali: ristoranti africani che servono mafé, domoda e riso al pollo e bancarelle che vendono ingredienti sconosciuti nella cucina italiana come okra, patate dolci e peperoni scotch bonnet.
“I paesi ricchi come il nostro – chiosa Coniglio – sono e saranno sempre meta di immigrazione. Ogni sforzo per rendere le frontiere più aperte e i flussi più regolamentati e prevedibili sarà un importante passo per rendere la diversità una fonte di straordinaria ricchezza”.