Qualche mese fa, Dave Summers ha perso il lavoro come direttore delle produzioni di media digitali presso l’American Management Association, vittima di licenziamenti causati dalla pandemia. La storia la racconta Economic Times.
Più di 60 anni e non sentirli
Mr. Summers, 60 anni, dopo aver perso il lavoro ed esserne rimasto inizialmente spiazzato, senza perdersi d’animo ha lanciato rapidamente la propria attività come produttore di media digitali, coach e animatore che crea podcast, webcast e video blog. Nel frattempo, lui e sua moglie, che insegna all’asilo, si sono trasferiti da Danbury, nel Connecticut in America, a Maryville, nel Tennessee. Un vero e proprio cambio di passo.
Lo sappiamo. Molte piccole imprese sono state bloccate dalle ricadute economiche causate dal coronavirus, ma per Dave Summers, avviarne una nuova sembrava essere l’opzione migliore.
“Non sono seduto su un enorme gruzzolo, quindi ho bisogno di lavorare per restare a galla”, ha detto. “Si tratta anche di essere sani e felici. Non posso semplicemente ritirarmi, perché in fondo sono creativo e devo essere impegnato a fare cose e ad aiutare le persone a raccontare le loro storie”.
Mentre la pandemia di coronavirus sta inducendo molti lavoratori anziani che hanno perso il lavoro, o a cui sono stati offerti pacchetti di fine rapporto per il pensionamento anticipato, a decidere di lasciare le proprie attività, altri come Summers stanno passando a una nuova vita imprenditoriale.
Una seconda vita, anche una terza
In effetti, un gruppo di americani più anziani statisticamente rilevante, anche prima del periodo Covid aveva avviato nuove attività. Nel 2019, una ricerca della Kauffman Foundation, un gruppo apartitico a sostegno dell’imprenditorialità, ha rilevato che oltre il 25% dei nuovi imprenditori aveva un’età compresa tra 55 e 64 anni, rispetto a circa il 15% nel 1996.
Secondo l’Economic Innovation Group, un’organizzazione di politica pubblica bipartisan, l’ondata è probabilmente “alimentata da nuovi disoccupati che scelgono di avviare un’attività in proprio, per scelta o per necessità”. “Le donne anziane, in particolare”, ha affermato Elizabeth Isele, fondatrice e amministratore delegato del Global Institute for Experienced Entrepreneurship, “sono fortemente motivate ad avviare un’attività in proprio”.
In Italia vediamo cosa succede
Sono 643mila i lavoratori over 65 che alimentano la forza lavoro italiana (18 milioni in totale): un piccolo esercito che, dal 2008 al 2018, è cresciuto del 60,8% (indagine Istat 2019 sul mercato del lavoro) e il cui tasso di occupazione sembra aumenterà anche post pandemia, nei prossimi anni.
Una cosa appare certa: si lavorerà tutti di meno durante la giornata con l’avvento delle settimane corte, dello smart-working, ma più a lungo nella vita e l’età della pensione sarà in media più alta. Anche secondo la Commissione Europea, il rapporto di dipendenza degli anziani supererà il 51% nel 2070, facendoci passare dall’attuale rapporto di 1 lavoratore over 65 su 3 lavoratori ad 1 over 65 su 2 lavoratori. Anche l’aspettativa media di vita aumenterà, passando dagli attuali 80,9 anni per gli uomini (dati Istat al 2018) a 82,6 anni, mentre per le donne passerà da 85,2 anni a 86,9 anni.
Una new age. In tutti i sensi
Perdere la propria posizione durante la pandemia è stato per molti italiani un durissimo colpo in un Paese che offre poche garanzie e sostegno. Il Green Pass non ha fatto che peggiorare la situazione. Altro che rilancio: aziende, ristoranti, bar, piccoli negozi di famiglia, ma anche quelli in franchising che facevano parte di catene e brand consolidati, non hanno potuto reggere l’impatto.
A controbilanciare questi dati allarmanti, una buona notizia: il numero di nuove startup lascia pensare a una nuova generazione nel lavoro e di lavori. Ma mentre gli anziani rimangono i più colpiti dalla crisi sanitaria, i giovani lo sono da quella economica: il virus allarga il divario e (spesso) il conflitto tra generazioni, ma contemporaneamente apre a nuovi scenari nei quali gli over 60 sono sempre più protagonisti. Basti pensare che, secondo i dati riportati dall’Ocse, l’Italia è agli ultimi posti nell’imprenditoria under-40.
La stessa tendenza è dimostrata da un esame del Registro delle imprese. Nel Nordest italiano, locomotiva della crescita trainata dall’export, sono in aumento gli imprenditori cinquantenni e sessantenni. Nel 2020 l’indice dei titolari e amministratori di impresa è aumentato soprattutto nella fascia di età 50-69 anni. In discesa, invece, gli indici per i 30-49 anni e per i ventenni.
Secondo i dati di Unioncamere, poi, il 44,2% di chi ha avviato una nuova impresa ha da 36 a 50 anni, il 37% da 18 ai 35 anni, il 18,8% più di 55. Invecchia, dunque, la popolazione imprenditoriale mentre la natalità delle imprese rimane in sofferenza. Nel quinquennio 2015-2020, se il totale delle imprese attive per profilo imprenditoriale è caduto dello 0,1%, le aziende giovanili hanno subìto un calo del 13,4%; quelle artigiane, del 5,2%. Nel Nordest, le imprese attive flettono del 2%, le giovanili dell’11,4% e le artigiane del 4,8%.
Dunque, in Italia il futuro del lavoro è quanto mai incerto ma, seppur manifestando un male demografico e burocratico oramai atavico, i dati dimostrano anche la nuova tempra delle persone di “una certa età”.
Secondo Marco Trabucchi, geriatra, presidente della Fondazione Leonardo e direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia: “Ci sono situazioni molto diverse perché per alcune tipologie, dal contadino al professionista, il lavoro è sempre stato parte integrante della vita; non ci sono state separazioni. Il lavoro è parte della vita, è interesse, curiosità, modo per impiegare il tempo, per sentirsi utili, per guardare al domani“.
Sta cambiando il modo di ritirarsi dalla vita lavorativa, o sta cambiando il modo di vivere il lavoro?
Non è una start-up per giovani
Ci sono sempre più anziani che lavorano, scrive il Wall Street Journal, la conseguenza è il cambiamento demografico storico che nel prossimo decennio si consoliderà come la rappresentanza demografica più numerosa in gran parte dei paesi più ricchi, Italia, Germania e Giappone in testa. Non stupisce che l’Italia sia ufficialmente in declino demografico. Ma, in questo scenario “grigio”, l’avanzata degli over 60 sembra non stia avendo, almeno per quanto riguarda il lavoro, effetti negativi. Un po’ come succede nel divertente film Lo stagista inaspettato interpretato da Robert De Niro, in cui un signore vecchia maniera, diventato vedovo e andato in pensione, non si rassegna e diventa stagista per un’azienda di moda, portando “un’innovazione al contrario”, fatta di antichi e radicati valori e un po’ di buon senso (che non guasta mai).
La buona notizia è che qualcosa in questo senso si muove: Manageritalia propone agli ex manager diverse offerte per il reinserimento sia per lo sviluppo di neoimprese, sia per il supporto volontario a onlus e startup.
“Le startup non sono un affare per ragazzini in felpa e infradito. Il 44,2% di chi ha avviato una azienda ha da 36 a 50 anni”. Titola così un articolo del Sole 24 ore, che così inizia: “Avere 95 anni e parlare di futuro si può. Lo fa Marino Golinelli, imprenditore e fondatore della casa farmaceutica Alfa Sigma, che in veste di filantropo offre formazione gratuita ai giovani che aspirano a creare imprese. Se Golinelli è una figura unica, non sono invece pochi gli imprenditori senior che, per necessità o voglia di cambiamento, decidono di dare seguito alla loro esperienza professionale attraverso una startup”.
Così, i “nuovi giovani” possono inventarsi strade nuove, avviare startup promettenti. Il cambiamento, certo, richiede anche competenze digitali.
“L’anziano potrebbe trovarsi in difficoltà su questo fronte, perché spesso non è in grado di adeguarsi a queste richieste, a queste prestazioni.” – continua Trabucchi – “Per un notevole periodo ci sarà questo piccolo conflitto tra l’anziano e i lavoratori più giovani, ma non si tratterà di una rottura netta“. E se è vero che il digital divide è un tema che governi e industria stanno affrontando, è definitivamente vero anche che nel mondo del lavoro c’è spazio anche per i senior.
“Molte aziende cominciano a valorizzare il sapere, l’esperienza, la competenza degli anziani. Il problema vero è quello di far sentire queste persone centrali, non solo sopportate”. Come nel caso dello stagista De Niro, il vantaggio per le aziende sembra essere molteplice. “Diverse ricerche sociologiche dimostrano che il lavoratore anziano non ruba il lavoro al giovane.“.
Marco Trabucchi, Gabriele Sampaolo e Anna Maria Melloni, scrivono un libro sull’argomento edito da Il Mulino: La popolazione anziana e il lavoro, opera che poggia su quattro considerazioni: “la prima considerazione è che la capacità lavorativa e anche fisica della persona anziana va sempre migliorando, cioè il 75enne di oggi è come il 65enne di 15-20 anni fa. Tra qualche decennio, il 65enne sarà come l’attuale 55enne. Il libro parte proprio da questa prima considerazione: oggi l’invecchiamento è un processo molto più lento. Una seconda considerazione clinica è che il lavoro, l’attività fisica, così come l’attività intellettuale e la capacità di organizzare, mantengono giovani. Il dare senso alla vita è più importante che non correre dietro al colesterolo. Terzo, il libro parte dal concetto che vi è uno spazio rilevante per il lavoratore anziano e che quindi è bene conservarlo e, anzi, svilupparlo. La quarta considerazione è che occorre che si creino posizioni di lavoro per l’anziano, che gli permettano di realizzare questo suo desiderio di lavorare e di essere utile per la collettività e per l’azienda“.
Trabucchi chiosa: “Bisognerebbe innanzitutto distruggere l’idea malefica che la gente stia bene a casa propria a fare la calza e l’idea che il lavoro sia una punizione; che i vecchi siano stanchi e malati; che invecchiare sia una malattia. Lo si può fare. Qualche anno fa nessuno si sognava di parlare di lavoro degli anziani. Oggi lo facciamo e lo facciamo in maniera chiara. Questo libro è il contributo di molte persone di grande prestigio professionale che dimostra che oggi il tema del lavoro in età anziana è centrale“.
Per Alberto Carpaneto, direttore della fondazione Human+: “I senior startupper sono anche professori universitari che mettono a frutto anni di ricerca creando nuovi prodotti, persone dalla green mentality o che hanno un interesse specifico per l’ICT capaci di trasformare questa passione in un business, oppure quelli che provengono da esperienze nel settore no profit“.
Riuscirà la nuova generazione della “Silver Valley” a dedicarsi con lo stesso entusiasmo per altri 5 o 7 anni allo sviluppo delle proposte avanzate e con quali ritmi? Se lo chiede Paolo Anselmo, presidente di Iban (Italian Business Angel Network). Il mercato c’è, come pure la formazione. Ora tocca ai nuovi giovani, ma loro sì che ci sono, sempre di più e sempre più alla ricerca di un futuro migliore.