Il libro di Daniel Goleman, Emotional Intelligence, è un punto di riferimento per chi si occupa di coaching, management e ambisce ad acquisire posizioni di leadership in campo lavorativo o sociale. Un libro sull’importanza di coltivare l’intelligenza emotiva che spesso, però, viene confusa con l’essere “gentili”. Ma non è così, e il fraintendimento può mettere nei guai.
Goleman sottolinea questo aspetto: “La prima cosa che spesso viene in mente quando qualcuno dice che un collega è “gentile” è che è piacevole lavorare con lui. Ma questo atteggiamento può oscurare sfide più sottili. Penso a una manager che conoscevo che era affascinante, educata e molto disposta a soddisfare i clienti e il suo capo. Era innegabilmente gentile con loro. Ma quando ho parlato con persone che avevano lavorato per lei, ho scoperto che tendeva a creare spazi di lavoro tossici: era ipercritica, distaccata e irritante.”
D’altro canto, soprattutto in alcuni contesti aziendali competitivi, è evidente che la gentilezza viene tradotta come una fuga dal confronto e chi è gentile viene visto come qualcuno facilmente manipolabile. Perché vorresti lavorare sulla tua intelligenza emotiva se questo significa solo che sarai calpestato? Oppure, se sei responsabile della progettazione e dello sviluppo di strategie di business insieme al tuo team, perché dovresti voler creare un gruppo di persone “gentili” – non sarebbe meglio creare un’azienda di persone “potenti”?” Spesso potenza e forza vengono confusi. In questo caso basti dire che chi ha potenza è colui che riesce a esprimere al meglio il proprio potenziale. Ha degli strumenti di gestione delle relazioni sempre a disposizione ed è proprio di questo che parla Goleman: non della capacità di dominare il proprio ambiente con asprezza, ma saperlo determinare strategicamente, cogliendo quelle sfumature che altri non colgono.
L’intelligenza emotiva è un aspetto dell’intelligenza legato alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie ed altrui emozioni. E’ stata trattata la prima volta nel 1990 dai professori Peter Salovey e John D. Mayer nel loro articolo “Emotional Intelligence”.
Partendo dal significato del termine emozione, che significa “spinta all’azione” (ex-movere, muovere fuori) il modello di Salovey e Mayer sull’intelligenza emotiva si propone la gestione più appropriata proprio per determinare l’azione “giusta”, ed include quattro diverse abilità:
- Percezione delle emozioni: intesa come la capacità di rilevare e decifrare non solo le proprie emozioni, ma anche quelle altrui.
- Uso delle emozioni: è la capacità di sfruttare le emozioni e applicarle ad attività come rispondere alle sfide e risolvere problemi.
- Comprensione delle emozioni: è l’attitudine a capire le emozioni e le loro variazioni nel tempo.
- Gestire le emozioni: consiste nella capacità di regolare le emozioni proprie e altrui, determinando nel modo più efficace possibile gli esiti di una interazione.
Secondo Salovey e Mayer le suddette abilità sono strettamente correlate l’una all’altra.
Il tema dell’intelligenza emotiva è stato successivamente trattato nel 1995 da Daniel Goleman nel libro “Emotional Intelligence” tradotto in italiano nel 1997: Intelligenza emotiva: che cos’è e perché può renderci felici. Grazie a questo libro quindi anche in Italia il tema dell’intelligenza emotiva ha iniziato ad essere utilizzato e studiato sia in ambito psicologico, sia in ambito organizzativo/aziendale.
In effetti, essere abili in ciascuna delle quattro componenti dell’intelligenza emotiva consente di confrontarsi quando necessario e di farlo in modo più strategico e produttivo. Questi componenti per Goleman sono: autoconsapevolezza, autogestione, consapevolezza sociale e gestione delle relazioni. (E si noterà che nessuno di questi è direttamente connessa con la “gentilezza”.)
Come si applicano questi concetti alla gestione di un confronto? Ad esempio, se sei preoccupato di essere sempre calpestato, potresti essere incline a rimanere in disparte, a non esporti troppo. Se sei a disagio con il conflitto, potresti quindi evitare del tutto il confronto. O, al contrario, andare nella direzione opposta sfogando la tua rabbia ed esacerbando la situazione. L’intelligenza emotiva fornisce una via di mezzo tra questi estremi. Una forte autoconsapevolezza e autogestione ti consentirebbero di controllare i tuoi impulsi iniziali o qualsiasi ansia che potresti avere durante la conversazione. Un senso di empatia altamente sviluppato – che fa parte della consapevolezza sociale – ti consentirebbe di vedere la situazione dal punto di vista dell’altra persona, in modo da poter presentare la tua argomentazione in un modo che la faccia sentire ascoltata o che le parli dei suoi interessi. E la gestione dei conflitti è una parte importante della gestione delle relazioni. Diresti quello che hai da dire, in modo chiaro e forte, e in un modo che l’altra persona possa comprendere e “sentire”.
Prendiamo, ad esempio, il fondatore di un’azienda che conosco. Nel suo ruolo di amministratore delegato ha sempre evitato i conflitti; questo divenne un problema particolare per la sua azienda perché evitava di dire ai suoi dipendenti come, secondo lui, dovevano lavorare. Così io e il CEO abbiamo iniziato a lavorare insieme e l’ho aiutato nel trovare le migliori modalità per parlare ai dipendenti, dicendo loro chiaramente cosa si aspettava da loro – senza minacce o colpe, ma anche senza passività. E con sua sorpresa, le conversazioni si sono svolte senza intoppi e gli ex “fannulloni” hanno iniziato a rigare dritto, accogliendo il proprio ruolo e le proprie responsabilità. Si tratta non tanto di arrabbiarsi, di diventare petulanti o persecutori, ma di essere autorevoli, ovvero, coltivare l’assertività nel confrontarsi con gli altri. Tra i due estremi, la passività o la furia cieca, si può semplicemente affermare le cose come le si pensa e le si considera giuste.
L’intelligenza emotiva in azienda
Questa è una situazione comune a molte aziende e a molti professionisti: ho visto molte persone sviluppare la loro capacità di gestire i confronti. Ci vuole un po’ a volte, ma la trasformazione è notevole e ricca, perché porta con sé molti vantaggi strategici. Da questo cambiamento nei propri paradigmi emotivi può dipendere il futuro delle proprie relazioni, finanche del proprio lavoro e del lavoro della propria azienda.
Tuttavia, è anche possibile che le persone che mostrano determinati tipi di intelligenza emotiva siano “eccessivamente strategiche” nel loro approccio. Questo perché avere una EI forte significa che in una certa misura hai la capacità di gestire le emozioni di chi ti circonda oltre che le tue. E questo può diventare rapidamente problematico. Mi spiego.
Prendi l’empatia. Esistono tre diversi tipi di empatia che risiedono in diverse parti del cervello:
Cognitiva: so come la pensi.
Emotiva: so come ti senti.
Compassionevole: ci tengo a te.
La combinazione di questi tipi di empatia crea un senso ogni volta diverso di rapporto.
Diciamo che sei davvero bravo nell’aspetto empatico-emotivo, ma non nel terzo. Lo vediamo in molti capi che ottengono facilmente comando e controllo e che sono bravissimi a spingere le persone a raggiungere obiettivi a breve termine: comunicano bene grazie alla loro empatia cognitiva e sanno (grazie alla loro empatia emotiva) che le loro parole avranno un forte peso sui loro dipendenti, ma a causa della loro mancanza di preoccupazione empatica non gliene importa pressoché nulla di quale sarà il costo di quell’estremizzazione del lavoro. Oltre ad essere moralmente sbagliato, ciò può creare esaurimento emotivo e forti stress.
Il secondo tipo di empatia, quella emotiva, è spesso quello dove le persone mancano di più all’appello ad esempio: chi ha una fobia come quella di un mio amico per le cavallette, o di un’altra per i ragni. Questa mia amica si è trovata ad avere a che fare spesso con persone che hanno riso della sua paura, ridicolizzando la pericolosità del piccolo insetto, di fatto svalutando allo stesso tempo la mia amica e la sua emozione. Queste persone non hanno sentito o compreso il vissuto di paura legato al ragno, ma hanno “visto solo il ragno”.
La d.ssa Giovanna Kiferle, che ha scritto anche in queste pagine, parla dell’intelligenza emotiva inquadrandone l’importanza nei vari livelli della scala evolutiva.
Più si sale nella scala, cioè, e più la comprensione delle emozioni, che si trasformano in stati d’animo e sentimenti, ben più complessi, diventa difficile. Può capitare, ad esempio, che il nostro amato animale domestico, terrorizzato da un temporale, ci graffi o ci morda mentre noi lo teniamo in braccio e tentiamo di tranquillizzarlo; lui reagisce con terrore ad uno stimolo non realmente minaccioso e risponde cercando la fuga e non protezione e vicinanza. Con il cagnolino impaurito è più facile comprendere cosa sta succedendo. Ma non è altrettanto semplice comprendere le emozioni più complesse ed agire con intelligenza (emotiva) quando si sale nella scala evolutiva.
La delusione, ad esempio, è un sentimento legato a una complessità emotiva tipicamente umana fatta di rabbia e tristezza più un mix di altri sentimenti. Non tutti, poi, viviamo la delusione e reagiamo ad essa allo stesso modo. Va da sé che interagire con una persona delusa risponde alla capacità di comprendere la “tinta”, il “tono”, la “misura” da agire in quell’interazione.
Riuscire a leggere internamente il “linguaggio trascurato” delle emozioni, in un tempo così caotico, rapido e social, dove i sentimenti diventano subito materiale da post, non è cosa semplice. Ma proprio per questo diventa così importante, direi urgente. Saper decifrare le emozioni è anche il principio fondante delle nostre interazioni dove, se è vero che tutto ciò che avviene, avviene insieme, trascurarle vorrà dire perdersi la maggior parte del proprio potenziale a discapito di una corrente (emotiva e relazionale) che, a quel punto, può trascinarci dove vuole.