di Ileana Barone –
Quando parliamo di arte siamo abituati a sentire nominare i “grandi maestri”, dando per scontato che siano soprattutto uomini ad averla resa grande, mentre le donne sono praticamente inesistenti.
Nella storia della fotografia, ma anche in altre grandi discipline come ad esempio la pittura, la cancellazione delle donne è il risultato di un meccanismo automatico e consolidato di dispregio che porta a lasciarle negli spazi grigi della memoria fino a farle sparire.
Per fortuna un numero sempre maggiore di studiose e ricercatrici sta cercando di sopperire a questa deriva analizzando, approfondendo, ricordando e tramandando le opere di quelle donne che sono state cancellate.
In ‘Une Histoire des femmes Photographes’, un volume di oltre 500 pagine viene raccontata, con nomi e cognomi, opere, date e luoghi, la storia delle fotografe di tutto il mondo dall’invenzione del mezzo a oggi.
Il libro è curato da due autrici francesi: Luce Lebart, storica della fotografia, e Marie Robert, capo curatrice al Museo D’Orsay. Il libro è totalmente femminile, infatti per costruire questo progetto le due curatrici hanno chiesto aiuto a circa 170 autrici provenienti da tutto il mondo e impegnate in vari campi dell’arte.
Un volume molto ricco che si apre con due saggi firmati dalle curatrici stesse a cui seguono 300 fotografe introdotte da testi concisi e approfonditi arricchiti da oltre 400 fotografie. In coda troviamo una bibliografia selezionata, la biografia delle autrici che hanno contribuito al testo e una pagina di ringraziamenti.
Per portare a termine questa antologia ci sono voluti ben due anni. Quello che ne viene fuori è un libro di carattere internazionale che vuole mostrare anche le fotografe meno conosciute, meno visibili, il più delle volte perché non occidentali. E soprattutto mettere una firma a tutte quelle contribuzioni anonime e sottovalutate: ovvero tutte quelle donne che hanno lavorato all’ombra di un padre o di un marito.
Scopriamo così che la prima fotografa professionista della Nuova Zelanda si chiama Elizabeth Pulman e che tra il 1871 e il 1900 ha gestito uno studio ad Auckland dove ha scattato numerosi ritratti dei Maori.
Oppure gli scatti di Marie-Lydie Bonfils che lavorerà tutta la vita nello studio del marito a Beyrouth, senza mai firmare le sue opere.
Ci sono anche le opere della palestinese Karimeh Abbud che sarà scoperta nel 1940 molto dopo la sua morte, anche se già nel 1930 aveva aperto il suo studio e firmava le sue immagini con uno stampino dove si legge “Karimeh Abbud – donna fotografo”.
Lebart e Robert nel parlare del progetto affermano che: “Nel campo della fotografia, sono poche le donne veramente note, e rari sono i nomi che sono giunti fino a noi. Il pantheon dei fotografi è ancora essenzialmente maschile e ciò sebbene molte donne siano state in primo luogo dei “fotografi”, cioè delle operatrici autonome e delle creatrici originali”.
“La macchina fotografica è come un passpartout: lo statuto di fotografa permette loro di accedere a degli spazi fino ad allora vietati o poco frequentati dalle donne” affermano le due autrici. Come negli anni ’70 a Palermo quando Letizia Battaglia, unica donna in un mondo di uomini, inizia a fotografare gli omicidi del clan dei Corleonesi per il quotidiano ‘L’Ora’.
Nel primo secolo di vita della fotografia le donne hanno usato la macchina fotografica per emanciparsi, documentando e documentandosi all’interno di un mondo che non le vedeva, prendendosi lo spazio della vita e dell’arte attraverso la pellicola. Tutte loro sono state e sono, delle creatrici autonome e originali in continuo dialogo con la realtà, superando limiti e visioni prettamente maschili grazie alla macchina fotografica.
L’intento del libro è quello di “scrivere la storia delle altre”, per dare finalmente visibilità ai lavori femminili mai esibiti o sminuiti.