di Paul Fasciano –
Monster Italia si chiede e chiede ai suoi follower: “per fare bene il vostro lavoro, fareste qualcosa nello stesso identico modo in cui si faceva nel 1984?”
Probabilmente la risposta è no. Nessuno farebbe le cose allo stesso modo di 30 anni fa. Le cose sono cambiate e cambiano sempre più velocemente. Un aspetto che è mutato molto in azienda, ma che molti continuano a fare come si faceva decenni orsono, sono i colloqui di lavoro. Ma se siete #HR, e vi occupate di #recruiting, ci sono buone probabilità che lo stiate facendo con un approccio ormai datato.
Sedetevi, rilassatevi e continuate a leggere: dobbiamo parlare del colloquio.
Colloqui di lavoro, oggi
Nell’articolo “L’insostenibile leggerezza del colloquio di lavoro: se dopo trent’anni le domande sono ancora le stesse” Monster Italia fa un’analisi dettagliata e struggente delle domande proposte ancora oggi ai colloqui. Una realtà quanto mai rimasta ai tempi della pietra: si arriva in una nuova azienda, con il proprio curriculum, sintesi di esperienze e attese, di speranze, di voglia e passione e ci si trova di fronte il solito “addetto” alle HR che, come un commesso da banco, inizia ad elencare una serie di domande prese dalla naftalina e riesumate proprio per voi.
Sulle colonne di Forbes l’esperta di risorse umane Liz Ryan stila la classifica delle 10 domande che un HR non dovrebbe più rivolgere a un candidato in sede di colloquio di lavoro.
- 1. Qual è la tua più grande debolezza?
- 2. Dove ti vedi tra cinque anni?
- 3. Perché dovremmo assumerti?
- 4. Che studi hai fatto al liceo?
- 5. Cosa direbbe il tuo ex capo di te?
- 6. Quali sono tre aggettivi che ti descrivono?
- 7. Con quali altre aziende sei in contatto?
- 8. Quanto percepisci ora?
- 9. Perché vuoi lavorare qui?
- 10. Potessi essere qualsiasi tipo di animale, che genere saresti?
Monster Italia introduce il suo pezzo: “È il 1984, Milan Kundera riempie le librerie di mezzo mondo col romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, a Stoccolma si fa il nome dell’italiano Carlo Rubbia per il Nobel per la fisica, e da qualche parte, negli Stati Uniti, la giovanissima Liz Ryan comincia una carriera nelle risorse umane che da allora non ha ancora visto la fine.
Tutto normale, verrebbe da pensare, solo vita che scorre. Se non fosse però che appena qualche tempo fa, sulle colonne di Forbes, la Ryan firmava un articolo nel quale spiegava, in altre parole, che se il mondo HR oggi fatica a stare al passo col mercato del lavoro, è anche – non solo, ma anche –
per via di un approccio che dal 1984, cioè da quando lei ha fatto il suo ingresso in questo ambito, di fatto, è cambiato poco o niente.”
Retaggi superati dal tempo e pratiche in qualche caso addirittura obsolete, dice la Ryan. Sul patibolo della Ryan, guru delle risorse umane, è finito proprio il processo di selezione, il metro di valutazione nelle mani di un recruiter che si approccia al colloquio di lavoro.
Colloqui di lavoro old style
“È lì, infatti, a dare retta alla Ryan, che si anniderebbero le principali cause dietro l’arretratezza del sistema. Molte delle domande che si facevano nell’’84, e che erano superate già allora, si continuano a fare ancora oggi – è in sostanza il senso delle parole della scrittrice di Reinvention Roadmap. E se questo avviene, è la spia che qualcosa che non va nel metodo HR di oggi.”
Non servono più a niente! Dice la Ryan. E perché mai continuare a fare qualcosa che non porta risultati? Quale folle continuerebbe nell’errore se solo se ne rendesse conto? Inutile dire che il mercato del lavoro non è più lo stesso da un pezzo e, quindi, anche i colloqui non sono più delle prove di abilità – o almeno non dovrebbero, suggerisce la guru – eppure assomigliano sempre molto a dei plotoni d’esecuzione ai quali i candidati interessati al posto devono contrapporsi.
Le domande da fare
Intanto, vale la pena soffermarsi sul tipo di approccio che il recruiter dovrebbe avere ad un profittevole colloquio considerando che la sua missione dovrebbe essere ottenere delle informazioni interessanti per poter valutare al meglio il candidato. Scoprire, con intelligenza emotiva, chi ha di fronte e quale risorsa potrà essere per l’azienda.
La Ryan spiega che le domande devono essere poste nei giusti termini per non essere invasive, altrimenti non serviranno un granché a capire il valore effettivo del candidato. Allora, non chiedere “come ti vedi tra cinque anni” perché, magari, si può ottenere una risposta migliore provando a chiedere che carriera si immagina quando pensa alla sua. Invece di chiedere “perché dovremmo assumerti?”, probabilmente è più congeniale e giusto ribaltare la domanda, e chiedere al candidato in che modo crede di poter essere d’aiuto a una realtà come la nostra?
La Ryan continua, punto per punto. Invece di chiedere “Che studi hai fatto al liceo?” perché la domanda non ci dice più granché di un candidato, meglio puntare sulle competenze acquisite anche in piccoli mansioni svolte. Indagare sull’expertise. La domanda successiva, anche questa molto utilizzata: “Cosa direbbe il tuo ex capo di te?” Che la facciamo a fare? Non conosciamo quel capo, allora tanto vale chiedere quali aspetti del suo precedente modello di lavoro lo hanno colpito positivamente e quali no. Alla domanda “Quali sono tre aggettivi che ti descrivono?” sarà difficile ricevere una risposta originale e del tutto onesta. In più la descrizione potrebbe non valere in una realtà per lui inedita, come potrebbe essere la nostra. Dunque evitiamola.
La settima domanda suggerita dalla Ryan, “Con quali altre aziende sei in contatto?”, ha anch’essa una criticità legata al fatto che ci pone come recruiter in uno stallo: qualsiasi risposta sarà sbagliata: se il candidato ci dice “nessuna” potremmo interpretare che non ha ambizioni o possibilità, mentre se ci fa un elenco di varie aziende, l’interpretazione potrebbe essere che ha i piedi in troppe scarpe. Dove ci porta una domanda del genere? Concentriamoci, invece, su cosa possiamo offrire sulla base del nostro bisogno e della risorsa che abbiamo di fronte, sostiene la Ryan. Sullo stesso piano la domanda “Quanto percepisci ora?”.
Nella testa del candidato il punto è un altro: quale reddito voglio arrivare a percepire e cosa sono disposto a fare per raggiungerlo? Ottenere questo tipo di informazioni, questo sì che è davvero utile per un recruiter.
Perché vuoi lavorare qui?
Spiega la Ryan, che un candidato a sua volta è seduto di fronte al recruiter per capire con chi ha a che fare. Il recruiter rappresenta in tutto e per tutto l’azienda e, come tale, in quel momento è in vetrina. Quale negoziante chiederebbe al suo cliente che sta vedendo la merce esposta “perché vuole acquistare quel paio di scarpe?”. Instillerebbe solamente un dubbio ulteriore nel suo cliente. Potrebbe invece elencare alcune caratteristiche di quelle scarpe e chiedere magari “cosa le piace di queste scarpe?” Nel caso del colloquio, un candidato potrebbe ancora non voler lavorare per noi. Sta al recruiter fare in modo di fargliela venire quella voglia, soprattutto se quel candidato è un elemento valido.
L’ultima domanda è la migliore: “Potessi essere qualsiasi tipo di animale, che genere saresti?” La Ryan ha un approccio molto netto sulle domande troppo vaghe e che toccano aspetti aleatori come la personalità del candidato. Meglio focalizzarsi sulle competenze professionali e sul come poterne trarre vantaggio.
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