di Tony Fasciano –
Un architetto è anche le sue origini, culturali, politiche. Le sue ambizioni, i suoi bivi fatti di tanto lavoro per presentare a un concorso tre progetti e ricevere un rimborso spese solo per uno dei tre. Così la vita professionale ti porta a delle scelte. Alcune ti conducono in un viaggio “premio” attraverso l’Europa alla scoperta dell’architettura di Le Corbusier, altre ti porteranno a New York, a sviluppare i progetti per le palazzine che ospiteranno gli yuppie di Wall Street.
Tony – Eri un hippy? E sai cos’è un hippy? Vi erano hippies in Europa negli anni ‘60? O da giovane professionista, eri qualche altra cosa? Il termine che abbiamo in US è yuppie -cioè Young Urban Professional-. Ma non è un termine molto positivo – è l’opposto di hippie.
Michael – No. E non sono una fonte accreditata per spiegare il fenomeno hippie degli anni ‘60. E direi che il movimento ha riguardato più gli americani e quasi per niente gli europei.
Il fenomeno comunque era residuale rispetto alla società; minoritario anche se con un enorme riflesso nella cultura e nei costumi. I capelli lunghi, le barbe, i pantaloni a zampa di elefante, le minigonne, le istanze femministe, la ricerca di una realtà virtuale attraverso voli psichedelici, sono allo stesso tempo un riflesso del movimento hippy, ma anche probabilmente alla base della sua origine. I giovani volevano emanciparsi e sfuggire al controllo di ogni autorità, soprattutto quella dei genitori in un gap generazionale divenuto enorme. Negli US vi era anche l’opposizione giovanile alla guerra in Vietnam e tutto questo si è trasformato in un movimento che ha aggregato i giovani in comunità il cui unico scopo era quello di rappresentare un modello di vita alternativo, se non opposto, al modello borghese. Ma credo si trattasse appunto di una rappresentazione; ed essa non ha retto davanti alle circostanze che la realtà ha posto sulla strada dei neofiti.
Per quanto riguarda gli yuppie, non mi riconosco in nessuna sigla. Sono stato certamente un giovane professionista e l’unica associazione l’ho avuta con colleghi e consulenti coi quali, di volta in volta, ho portato avanti il lavoro, sempre pressante, dello studio.
Il primo edificio
Tony – Qual è stato il primo edificio che hai disegnato e che hai visto costruito? Come hai trattato questa pietra miliare – lo hai visitato una volta costruito, o in costruzione, fotografato, hai brindato, fumato la pipa, portato una ragazza a visitarlo? Ricordi quali erano i tuoi sentimenti?
Michael – Una domanda amarcord! Da studente lavoravo per un ingegnere ed insieme ad altri due colleghi avevamo messo su una specie di catena di montaggio per la progettazione preliminare di edifici. Il nostro target produttivo era di un intensivo in due settimane ed una palazzina in una (senza computer e tutto ad inchiostro). Ricordare quale sia stato il primo intensivo o la prima palazzina e seguirne i lavori o il completamento, non sarebbe mai stato possibile. Quindi niente festeggiamenti, ragazze ecc.
Comunque, dopo il completamento in 5 settimane di 5 palazzine, io e i miei due colleghi, facemmo un viaggio in Europa.
Ecco quella è stata la ricompensa per il mio lavoro migliore di qualunque altra. Con un 1100 Fiat ci spingemmo fino all’estremo nord della Svezia e, strada facendo, visitammo il Bauhaus, una new town, una cattedrale gotica, la cappella di Ronchamp e, sempre di Le Corbusier, una sua Unità d’Abitazione. Avrei brindato abbondantemente se in quel periodo o appena laureato, avessi vinto i concorsi di idee a cui partecipai con altri colleghi per 3 ospedali, a Pietralata, Brescia e Fondi. Un lavoro durissimo ricompensato da un solo rimborso spese per quello di Pietralata,
“Il nostro target produttivo era di un intensivo in due settimane ed una palazzina in una (senza computer e tutto ad inchiostro)”
Come vedi non vi è stato un primo edificio, ma tante esperienze a cui si devono aggiungere anche quelle da studente, dove si progettava, che lo si creda o meno, nientemeno che la città spaziale del futuro.
Edifici a Wall Street
Tony – Andando indietro al tuo rifiuto per gli affari inseguendo il dollaro, quanti edifici per uffici hai disegnato? E quanti di essi sono stati costruiti? E approssimativamente, quanti lavoratori americani hanno percorso i tuoi atri e sono stati influenzati dal tuo disegno?
Michael – All’ultima parte della tua domanda sei tu che potresti veramente rispondere visto che ogni giorno entravi e lavoravi (prima del Covid) in un edificio disegnato da me a Westchester. Ma andiamo alla prima parte. Sembra che l’implicazione sia una discordanza fra il rifiuto di un certo mondo ed il lavorare e produrre per quel mondo. Un edificio per uffici è un contenitore di tutto e del suo contrario. Tu per esempio ti occupi di volontariato che col mondo degli affari c’entra solo nel senso che cerchi di prendere dai ricchi per dare ai poveri. Tipo Robin Wood che non era certo uno spietato capitalista.
Un edificio per uffici è un semplice contenitore i cui spazi vengono modificati a seconda delle esigenze di chi lo occupa e vi lavora. L’architetto cerca solo di conferirgli una identità unica che trasmetta un messaggio di efficienza, cercando di armonizzarlo con l’ambiente circostante. E per rendere 40 ore a settimana il più possibile gradevoli per chi lo utilizza, è essenziale che il suo impianto sia in qualche modo gratificante. Per esempio elevare l’atrio per un certo numero di piani, con una buona illuminazione per poter piantare del verde e possibilmente degli alberi (rischioso perché molti amministratori col tempo tendono a sostituire il tutto con copie finte), e con sedute e tavoli sia dentro che fuori nel verde per la pausa colazione. Tenendo presente che si sta servendo non solo il mondo di Wall Street, ma anche quello di Main Street, cioè il mondo della scuola, delle professioni, di organizzazioni sportive e quant’altro.
In quanto a quantificare sarebbe un esercizio in futilità. Sono il frutto di più di 25 anni di professione ed insieme ai complessi residenziali rappresentano un’attività di lavoro impegnativa e gratificante.
Segue dalla Seconda Parte
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