di Alessandro Riganti, Country Manager di D-Link per l’Italia
L’espressione “Made in China” è sinonimo di industria manifatturiera e per decenni la nazione è stata conosciuta come “la fabbrica del mondo”. Tuttavia, a causa di una serie di fattori, molte aziende stanno iniziando ad abbandonare la produzione cinese.
Navigare nell’incertezza geopolitica
Le tensioni geopolitiche, in particolare, hanno un impatto diretto sulle relazioni commerciali e, nel 2020, il governo degli Stati Uniti ha persino promosso l’iniziativa denominata “Clean Network”, in risposta alle crescenti preoccupazioni in merito alla sicurezza della tecnologia cinese.
Questa misura, ancorché discussa, ha rapidamente raccolto consensi tra i governi democratici di tutto il mondo, tanto che nel dicembre del 2020 più di 60 nazioni si erano impegnate pubblicamente a rispettare i principi della Clean Network. Tra questi, Paesi come Regno Unito, Grecia, Singapore, Australia e Taiwan.
Sebbene la legislatura sia finita con l’arrivo al potere dell’amministrazione Biden, la sua eredità è rimasta. Il sospetto nei confronti della tecnologia di proprietà e produzione cinese si sta rivelando difficile da scrollarsi di dosso per i governi, anche all’interno dell’UE e del Regno Unito.
Nel 2023, un Paese dopo l’altro ha vietato la popolare app di social media di proprietà cinese TikTok dai dispositivi utilizzati dal personale governativo e dai funzionari eletti. Chiamando in causa “rischi per la sicurezza nazionale”, la Commissione europea, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’UE hanno vietato l’uso di TikTok sui dispositivi ufficiali dei parlamentari e del proprio staff. In Italia il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir) ha avviato a gennaio 2023 un’indagine conoscitiva sull’app.
Anche nel settore privato esistono sfide simili, soprattutto per le aziende che devono rispettare rigorose misure di compliance e che gestiscono informazioni sensibili. Per questo motivo, è fondamentale per queste organizzazioni conoscere cosa c’è nella propria rete e avere piena fiducia nella sicurezza della supply chain.
Un esempio significativo è quello di Apple, che ha spostato in India parte della produzione degli iPhone 14 e 15 e ha anche manifestato l’intenzione di trasferire nello stesso Paese la produzione degli iPad. Tra le altre aziende che si sono impegnate ad abbandonare la produzione cinese c’è TSMC, il più grande produttore di semiconduttori al mondo, che ora opera principalmente a Taiwan, ma che ha anche assunto nuovi impegni nei confronti del settore produttivo statunitense. Allo stesso modo, la casa automobilistica Mazda ha riportato la produzione di componenti in Giappone e Samsung ha spostato la sua produzione cinese in Vietnam.
Tuttavia, al di là dei timori per la sicurezza, alla luce dei recenti eventi mondiali, delle crisi e delle incertezze, l’abbandono della produzione cinese, o almeno la riduzione della dipendenza da essa, può presentare vantaggi significativi per le aziende che intendano approfittarne.
Resilienza della supply chain
La pandemia da Covid-19 ha messo in luce le vulnerabilità delle supply chain globali, dal momento che le interruzioni nella catena di fornitura hanno evidenziato i rischi di un’eccessiva dipendenza da un singolo Paese. Se un’altra crisi mondiale o un acuirsi delle tensioni geopolitiche dovessero rendere insostenibile la produzione cinese, le aziende che puntano tutto su un unico Paese potrebbero trovarsi nuovamente ad affrontare gravi interruzioni della catena di approvvigionamento.
D’altro canto, le aziende che cercano supply chain più resilienti saranno in grado di resistere più facilmente agli eventi imprevisti. La diversificazione delle sedi produttive offre anche una maggiore flessibilità operativa e consente alle aziende di adattarsi rapidamente alle mutevoli dinamiche di mercato, alle preferenze dei clienti o ai cambiamenti normativi. Avere più basi produttive, in sostanza, facilita risposte più rapide alle richieste del mercato.
Storicamente, la produzione cinese è stata a lungo associata all’economicità e alla scalabilità. Tuttavia, con l’aumento del costo del lavoro – dovuto in parte alla crescita dei “colletti bianchi” – il vantaggio di prezzo che offriva un tempo si sta erodendo.
Producendo beni e componenti in Paesi diversi, le aziende possono trarre vantaggio da costi del lavoro più competitivi, mettersi al riparo dai rischi valutari, beneficiare di tassi di cambio favorevoli e aggirare i dazi all’importazione e all’esportazione, riducendo i costi e creando una supply chain più resiliente.
Oltre la supply chain
Le preoccupazioni per la protezione della proprietà intellettuale sono un tema da tempo dibattuto in Cina. Le aziende spesso si preoccupano del potenziale furto di proprietà intellettuale o della riproduzione non autorizzata dei prodotti e, pertanto, spostare la produzione in Paesi con norme sulla protezione della proprietà intellettuale più severe può salvaguardare le tecnologie e le innovazioni proprietarie.
Inoltre, da una prospettiva ESG (environment, social, governance), le severe normative ambientali e gli attuali obiettivi di sostenibilità possono incoraggiare le aziende a cercare luoghi con legami più ecologici e pratiche socialmente accettabili. I Paesi con normative ambientali migliori della Cina possono offrire incentivi per la produzione green, allineandosi alle iniziative aziendali sulla sostenibilità.
In definitiva, l’allontanamento dalla produzione cinese non è solo una tendenza a breve termine emersa alla luce dell’attuale politica mondiale, ma segna l’inizio di una diversificazione a lungo termine della geografia produttiva. Man mano che la manifattura dei diversi mercati emerge, si sviluppa e inizia a competere con l’economicità e l’efficienza della Cina, le aziende saranno in grado di mitigare i rischi associati alle incertezze geopolitiche ed economiche e, a loro volta, di costruire un’attività più resiliente e a prova di futuro.
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