Non tutti i treni passano solo una volta nella vita. Alcuni tornano. Ma la domanda è: sarai la stessa persona quando li rivedrai?
Nel mio lavoro di coach e formatore, mi capita spesso di incontrare individui straordinari — imprenditori, manager, artisti — che si definiscono falliti solo perché un’occasione è sfumata. Come se il loro valore fosse scritto a matita nella pagella di terza media. Eppure, nessuno di loro è mai stato un fallimento. Solo che nessuno gli ha mai insegnato una cosa: che crescere è una decisione, non un dono. E come ogni decisione, può cambiare tutto.
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Per molte persone, leggere un libro può aprire domande che già da tempo bussavano nella mente.
Succede spesso, quando si cerca di comprendere meglio se stessi o gli altri, che un concetto apparentemente semplice arrivi come una rivelazione.
E capita, a volte, che proprio i momenti di dubbio diventino il terreno più fertile per un vero cambiamento. Lo ammetto: la prima volta che lessi il libro Mindset. Cambiare forma mentis per raggiungere il successo di Carol Dweck non fu per curiosità accademica, ma per una questione personale. Mi stavo chiedendo perché alcuni coachee, pur dotati di grande visione e strumenti eccezionali, tornavano sempre al punto di partenza. Era come se avessero in mano la mappa del tesoro ma continuassero a usare la bussola al contrario.
Poi, tra una sessione e l’altra, mi è apparso chiaro:
non è il talento a fare la differenza, ma l’idea che hai di te stesso.
Carol Dweck la chiama mentalità fissa. Io, nel mio modello del Campo Potenziale, la identifico come una distorsione dell’Intenzione. Quando l’Intenzione è espressa al negativo, con frasi del tipo “non sono in grado di…”, “non mi piace questo…”, “ho difficoltà a…”, è una chiara informazione lanciata dall’altra parte, verso quel futuro che stiamo decidendo in anticipo, conformandolo nel qui e ora.
Ho visto questa trappola all’opera anche nei più brillanti. Persone che hanno lauree prestigiose, ruoli di responsabilità, conti correnti rassicuranti — eppure si sentono spesso vuoti, a volte inadeguati, come se stessero recitando una parte scritta da altri. “Non sono portato per questo”, mi dicono. Oppure: “Non sono fatto per prendere decisioni rischiose.” Ma chi l’ha detto? E soprattutto: chi ha deciso che quello che sei oggi sia il massimo a cui puoi aspirare?
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È in questo che Mindset si incastra perfettamente con il mio approccio: perché mostra che l’identità non è un’etichetta appiccicata all’infanzia, ma una costruzione continua, giorno dopo giorno. “Siamo storie che camminano”, come dice Paolo Borzacchiello. Intendendo che ogni abilità può essere sviluppata, ogni alternativa può essere accolta. Nonostante la scuola. Nonostante le critiche. Nonostante i fallimenti.
Un esempio? Un mio cliente era convinto di non essere creativo. Cresciuto con l’idea che lui, mente razionale, non poteva permettersi divagamenti (il babbo in tenera età pretendeva particolare rigore) era rimasto convinto che “il creativo è quello con la testa tra le nuvole”, e aveva deciso così di relegare l’immaginazione in un angolo. Poi, durante un esercizio pratico in sessione, inventò un metodo per semplificare un processo aziendale che gli valse un premio interno. “Ma come ho fatto?”, mi chiese. E io gli risposi: “Hai smesso di pensare che non potevi.”
Ecco cosa fa la mentalità di crescita: ti autorizza. Ti dice che puoi imparare, fallire, aggiustare il tiro e tornare in pista. E ti restituisce la proprietà del tuo sviluppo.
E dire che tutto cominciò con un equivoco. Alfred Binet, il padre del moderno test del QI, non aveva alcuna intenzione di sigillare il destino intellettuale degli individui dentro un numero. Anzi, il suo obiettivo era l’esatto contrario: dimostrare che l’intelligenza poteva essere sviluppata. Che la mente fosse plastica, educabile, capace di crescere.
Eppure — come spesso accade alle buone idee lasciate in mani sbagliate — il suo test divenne col tempo uno strumento di esclusione, etichettatura e pregiudizio. La psicologia americana lo rese un indice di valore personale. Se eri “intelligente” sopra a un certo livello misurato, tutto era possibile. Se non lo eri, beh… meglio adattarsi a un destino minore. Ed è proprio da questo scarto tra l’intento originario e l’uso distorto che Carol Dweck parte con la sua rivoluzione: non sei il tuo punteggio. Sei la tua propensione a superarti, a evolverti.
Nel prossimo passaggio, esploreremo come questa idea si connette profondamente con il mio Modello del Campo Potenziale, e perché i quattro livelli mentali — Intenzione, Intuizione, Informazione, Interazione — rappresentano le porte attraverso cui passare per trasformare un’identità statica in una possibilità in movimento.
Dalla mentalità fissa al potenziale che si espande
Nel mio lavoro quotidiano di coaching con professionisti ad alte prestazioni — manager, creativi, ricercatori, imprenditori — capita spesso di intercettare una trappola silenziosa: persone di enorme talento, che proprio per questo evitano le sfide. Non perché non abbiano coraggio, ma perché si sono abituate ad avere successo. Hanno paura di fallire perché credono che il fallimento dica chi sono.
Carol Dweck ha un nome per tutto questo: mentalità fissa. È il riflesso condizionato che ci spinge a cercare conferme, a temere la critica, a evitare i terreni sconosciuti. In questa visione, ogni errore è una minaccia. Ogni deviazione dalla perfezione è un pericolo da nascondere.
“Le persone con mentalità fissa pensano che il successo definisca il loro valore. Quelle con mentalità di crescita pensano che il valore sia nel processo stesso.” – C.S. Dweck
Eppure, ogni giorno vedo trasformazioni straordinarie. Ricordo il caso di un imprenditore nel settore tech, abituato a vincere, con una carriera in ascesa fulminea. Era brillante, ma paralizzato: ogni nuova iniziativa doveva essere perfetta, ogni strategia calcolata al millimetro, ogni fallimento un potenziale colpo alla sua identità. Nel nostro lavoro insieme, siamo partiti da una domanda semplice: “Cosa succederebbe se fallire non significasse nulla su chi sei?” È stato come togliere il tappo a una bottiglia sotto pressione. Le sue intuizioni si sono moltiplicate. Ha cominciato a testare, a rischiare, a sbagliare — e a crescere come persona e come professionista.
Il punto non era solo pensare “positivo” (termine che sostituisco volentieri con “costruttivo” o “potenziante”). Era abbandonare l’equazione tra errore e identità. Passare da sono un fallimento a sto imparando. Dweck la chiama mentalità di crescita, ma è più di un’etichetta. È una prassi. Ed è una prassi confermata dalla scienza.
👉 Uno studio pubblicato su Nature Neuroscience ha dimostrato che i cervelli delle persone con mentalità di crescita mostrano una maggiore attività nella corteccia anteriore cingolata e nella dorsolaterale prefrontale durante il feedback negativo. In altre parole: imparano meglio dagli errori.
👉 La Stanford University, dove Dweck insegna, ha dimostrato che gli studenti a cui viene insegnato esplicitamente che “l’intelligenza è plastica” migliorano significativamente le loro performance accademiche. Non perché studino di più. Ma perché credono che abbia senso farlo, soprattutto se fatto “in un certo modo”.
Ed è qui che il mio Modello del Campo Potenziale si incontra con la visione della Dweck: quando modifichi profondamente il tuo modo di vedere te stesso, si modifica anche il campo intorno a te. Un po’ come dire: se prendi posizione in un posto specifico, costringi tutto il resto intorno a conformarsi. E’ infatti, proprio quando modifichi profondamente il tuo modo di vedere te stesso, che si modifica anche il campo intorno a te. Un po’ come dire: se prendi posizione in un punto preciso, costringi tutto il resto a riorganizzarsi. È fisica, non solo filosofia.
Secondo il principio di esclusione di Pauli, due particelle identiche non possono occupare lo stesso stato nello stesso spazio: se tu scegli un’identità precisa, una postura mentale chiara, un ruolo nuovo nella tua storia personale, è come se occupassi uno “stato quantico” unico. Quel posto, da quel momento, è tuo. La realtà — le persone, le situazioni, persino le opportunità — comincia a muoversi di conseguenza.
Ma c’è di più. Il principio di indeterminazione di Heisenberg ci dice che non possiamo conoscere con precisione posizione e velocità di una particella allo stesso tempo. Tradotto in termini umani: più sei deciso nel definire chi sei, più il futuro intorno a te si libera, si espande, si rende disponibile a infinite possibilità. Non puoi controllare tutto, ma puoi determinare da dove cominci. E ancora: la semplice osservazione — lo dice la meccanica quantistica — modifica l’oggetto osservato. Quando diventi cosciente del tuo stato, della tua direzione, della tua Intenzione autentica, stai già modificando il Campo. Stai attivando un’onda che, per interferenza o risonanza, costringerà la realtà a ridefinirsi.
Rupert Sheldrake direbbe che hai appena modificato il “campo morfico” di riferimento. Io lo dico con parole più semplici: quando cambi dentro, crei una nuova risonanza nello spazio in cui vivi. E questa dà forma, un po’ come succede ai granelli di sale messi su una lastra di metallo che viene fatta vibrare con note diverse. Ogni suono richiama contenuti coerenti. A volte basta un cambiamento minuscolo nella tua identità profonda — dire un “no” che non avevi mai detto prima, fissare un confine, riconoscere il tuo valore — per far sì che il resto del sistema non possa più comportarsi come prima. È un cortocircuito silenzioso. Una discontinuità del Campo. Ed è in quel momento che capisci cosa vuol dire essere davvero “potente”: non perché domini, ma perché generi coerenza. Nancy Duarte dice: “la risonanza determina il cambiamento”.
Ed è così che le occasioni si moltiplicano. Le resistenze interne si allentano. Le relazioni migliorano. La realtà si riorganizza.
Ma attenzione: non è automatico. Richiede un allenamento costante. Come ogni trasformazione, anche quella della mente ha bisogno di tempo, attenzione e — appunto — mentalità. Non basta leggere il libro o ascoltare una conferenza motivazionale. Bisogna vivere ogni giorno da apprendista.
Cosa significa, concretamente?
- Vuol dire fare una cosa nuova ogni giorno, anche solamente ogni settimana, anche se (soprattutto se) ti fa sentire imbarazzato.
- Vuol dire chiedere feedback, anche quando ti aspetti possa far male.
- Vuol dire ricordarti che “non sono bravo in questo” è solo una foto del presente, non una condanna del futuro. Non sei bravo in questo… per ora!
Ogni volta che scegli la sfida, stai dicendo al tuo cervello: sto cambiando. Ogni volta che resti nella zona di comfort, stai dicendo: preferisco avere ragione piuttosto che evolvermi. E allora, quale campo stai generando? Quali circostanze stai creando? Quale identità stai nutrendo? In quale direzione si muove il tuo potenziale?
Ecco, in questo punto si incontrano perfettamente le strade della Dweck e del Modello del Campo Potenziale. Perché se è vero, come sostiene la psicologa americana, che il nostro sviluppo dipende dalla mentalità che scegliamo — crescita o fissità — io aggiungo un elemento fondamentale: quella mentalità non solo influenza i tuoi comportamenti, ma genera effetti misurabili nel Campo stesso in cui ti muovi.
La Dweck ci insegna che la mente può cambiare, che l’errore non è un’identità ma un passaggio, che lo sforzo è il vero talento invisibile. Il mio modello lo prende per mano e gli sussurra: attenzione, però, perché ogni scelta che fai — anche interiore — è già una causa che modella la tua realtà. Nel Campo Potenziale, l’effetto può precedere la causa. Puoi decidere di agire come se fossi già quel professionista che stai diventando. Puoi parlare da leader, anche se nessuno ti ha ancora nominato tale. Puoi investire tempo in una versione di te che ancora non si è manifestata, ma che già vibra, silenziosamente, nel Campo.
E così, mentre la Dweck ci aiuta a smontare le etichette mentali che ci bloccano, il Campo Potenziale ti invita a un passo in più: abitare il futuro prima che accada, scegliendo adesso con intenzione, visualizzando chiaramente e con lucidità non chi sei, ma chi stai diventando.
Cambiare mentalità non è un’illuminazione istantanea. Non è una camminata sulla brace motivazionale né un “click” magico che trasforma l’insicurezza in carisma da palcoscenico. È, molto più semplicemente, un allenamento silenzioso, fatto di scelte che non fanno notizia. Dire no dove ieri dicevi sì. Provare una cosa nuova nonostante la voce interna che sussurra “non sei capace”. Accettare un errore come dato d’amore, non di condanna.
Carol Dweck ci mostra come la mente possa imparare ad amare la crescita, anche quando fa male, anche quando è lenta, anche quando sembra non funzionare. Ma nel mio lavoro, vedo ogni giorno qualcosa in più. Vedo come ogni volta che cambi la tua postura mentale, cambia anche il campo intorno a te. Le relazioni rispondono in modo diverso. Le opportunità si rendono visibili. La sincronicità — quella parola poetica che Jung amava — non è altro che il Campo che risuona.
Ecco perché non possiamo più permetterci di considerare la “mentalità” come una questione interiore e privata. La tua forma mentis è una forza creatrice. Sta modellando il tuo contesto, le tue relazioni, i tuoi risultati. La tua identità non è una fotografia statica, ma un flusso di scelte ripetute. E ogni giorno, in ogni istante, hai una chance silenziosa ma potente: puoi scegliere il prossimo te.
Il vero potere, oggi, non è sapere più degli altri. È sapere come si cambia. Come si resta aperti, vulnerabili, in divenire. E questo — oggi più che mai — è il cuore del coaching, dell’educazione, della leadership.
Non si tratta di diventare perfetti, ma di diventare disponibili. Al cambiamento. Al potenziale. Alla propria vera forma.