Sarebbe una domanda retorica, con una risposta scontata, se dietro Donald Trump non si attestasse un intero partito; e se questo intero partito non si portasse appresso i suoi votanti; e se fra i suoi votanti non vi fossero frange armate pronte ad ammutinarsi. E soprattutto se questo partito non preferisse il caos alla democrazia.
Il potere all’irrilevanza
Nel 2016 Hillary Clinton, secondi dopo la proiezione in cui AP dichiarava Trump vincitore delle elezioni (pur con margini risicati in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin) gli telefonò e in una tradizione di graziosa gentilezza e consuetudine, gli concesse la vittoria, congratulandosi ed augurandogli ogni successo per il bene del paese. Lo stesso aveva fatto nel 2000 Al Gore nei confronti di George Bush, quando solo lo stato della Florida, con solo 500 (cinquecento) voti, era in disputa.
Se si esclude la tragedia della guerra civile, è stato così sempre, persino nei momenti turbolenti dell’infanzia della repubblica, quando per esempio, una disputa fra Aaron Burr e Alexander Hamilton si risolse in un duello e con la morte di quest’ultimo.
Ma il Donald è diverso; è quello che rompe con le tradizioni pensando sempre e solo a se stesso. Niente di nuovo. Quello che è nuovo (ed inconcepibile) è lo spazio di manovra che il GOP è disposto a dargli a scapito della propria credibilità. Eppure avrebbero ogni ragione per scaricarlo e mantenersi distanti (finalmente) da un perdente sulla via di passare dai tribunali elettorali a quelli criminali. Certo, ma non così in fretta; non si può alienare la base elettorale di Trump, anche se questo comporta essere solidali con una amministrazione:
Che ha separato dai genitori piu’ di 600 bambini e li ha posti in campi di concentramento permettendo che fossero assoggettati ad ogni tipo di abuso.
Che ha sottoposto vulnerabili donne migranti a isterectomie.
Che ha causato la morte di ¼ di milione di persone attraverso il propagarsi, senza un piano di controllo, di una pandemia che ha finito col contagiarne più di 10 milioni; ostacolando e criticando i governatori democratici che hanno cercato, pur nell’ostracismo federale, di opporsi al diffondersi del virus.
Che ha decimato le istituzioni democratiche e che, con altri 4 anni a disposizione, avrebbe finito, con molta probabilità, con l’annullarle del tutto.
Che, malgrado una crisi economica senza precedenti, ha rifiutato di intervenire con uno stimolo capace di impedire che il paese entrasse in una fase depressiva.
Malgrado tutto questo, uniti da una base elettorale comune, Donald e il suo partito viaggiano in perfetta sintonia, sebbene per cause diverse. Donald, rimanendo in una disputa elettorale non a caccia di voti, ma a contare voti già espressi, può continuare a raccogliere donazioni che in parte gli serviranno per risanare una campagna elettorale in bancarotta. E naturalmente sentirsi ancora rilevante; ma non voglio mettermi più di tanto nella sua testa. Invece il GOP per cercare, attraverso una lotta di potere, anche se sbagliata e perdente, di compattare la propria base elettorale. Demograficamente cominciano ad essere in minoranza nel paese ed anche a livello di messaggio stanno perdendo larghe fette di elettorato, quello femminile in primis. Inoltre, in Georgia i giochi sono ancora aperti per l’assegnazione a gennaio di due seggi senatoriali. Cedere la presidenza in questo momento sarebbe da considerare una imperdonabile debolezza che poco si addice al partito dei macho-men.
Ed ecco come il rendere questa transizione il più possibile traumatica sembra rientrare negli interessi del Donald e del GOP.
Peccato che non rientri negli interessi del paese e delle sue istituzioni democratiche. Ma questo, negli ultimi 4 anni, è stato il leitmotiv di una amministrazione repubblicana che meglio, in tutta evidenza, non sa fare.