di Giacomo Torresi –
Fra i primi atti esecutivi del presidente Joe Biden, 17 in tutto, c’è il rientro degli Stati Uniti nell’accordo globale sul clima sottoscritto a Parigi nel 2015. Un atto simbolico, teso a segnare, subito e senza equivoci, la volontà di eliminare gradualmente quanto fatto dal suo scomodo predecessore Trump.
Un atto simbolico senza dubbio ma, al contempo, un gesto concreto destinato a cambiare il futuro nella lotta ai cambiamenti climatici nei prossimi anni negli USA e nel mondo.
Joe Biden lancia un messaggio interno all’economia americana e al tempo stesso riposiziona gli Stati Uniti al centro delle politiche globali in materia di clima, puntando ad assumerne la leadership. Con la fine dell’isolazionismo patriottico e sovranista di Trump, Biden progetta una America realmente grande, e non solo negli slogan, in un quadro di multilateralismo.
L’agenda
Il primo grande incontro internazionale, in cui si discuterà di clima, è fissato per il 30 e 31 ottobre 2021, quando Roma ospiterà il G20.
A seguire, dall’1 al 12 novembre 2021, il Regno Unito ospiterà COP26, la ventiseiesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, rinviata lo scorso anno causa pandemia, sarà l’occasione per fare il punto sull’efficacia delle azioni intraprese nei vari Paesi per ridurre le emissioni di C02 e stabilizzare l’aumento della temperatura globale.
Lo stile Biden
Biden ha subito “giocato” questa carta “verde” con intelligenza. Senza schierarsi apertamente con gli ambientalisti, ha fatto del clima un tema di sicurezza nazionale, giocando così sui sentimenti più profondi del popolo americano. Puntare quindi a mantenere il benessere e non a fare gli ambientalisti di salotto, evitare rischi per le persone e l’economia e costruire posti di lavoro grazie alla transizione energetica, sono questi i punti cardine della nuova politica green a stelle e strisce.
È indubbiamente lo “stile Biden” in continuità con quello di Obama.
Il Partito Democratico ha almeno per 2 anni (almeno fino alle elezioni di medio termine, che riguardano il Congresso, le assemblee elettive dei singoli Stati, e alcuni dei governatori dei singoli Stati) la maggioranza in entrambi i rami del Congresso e governa Stati e città importanti.
Biden ha una finestra temporale importante per impostare il suo Green Deal, puntando sulla rinascita dell’economia e stringendo alleanze con gli interessi privati innovativi (rinnovabili, idrogeno, efficienza, mobilità elettrica) distaccandosi dai vecchi interessi conservatori della “deep America trumpiana” (miniere di carbone, acciaierie, petrolio e gas, nuove trivellazioni).
Una sfida difficile che Biden deve giocare in casa, cambiando il modello di sviluppo americano, e, al tempo stesso, guidando la transizione verde mondiale, nella speranza che ciò avvenga in sinergia con l’Unione Europea. La nomina di John Kerry (ex segretario di Stato di Obama) a delegato sul clima si sposa con il nuovo corso verde europeo di Ursula Von der Leyen.
Il piano
Biden ha indicato un primo traguardo: neutralità elettrica USA al 2035. Oggi gli USA producono il 38% della elettricità consumata con fonti non fossili (50% nucleare, 50% rinnovabili). Per arrivare al 100% serviranno incentivi e stimoli ma sarà indispensabile ricostruire la rete elettrica nazionale, una delle più arretrate fra i paesi sviluppati.
Un investimento pubblico enorme che ricorda molto da vicino il “New Deal” di Roosevelt: investimenti pubblici, posti di lavoro, innovazione.
Il secondo target di Biden è la neutralità di tutta l’economia USA al 2050, sforzo ancora più gigantesco in un Paese abituato a guidare auto di grossa cilindrata, con forti gruppi di interesse nella produzione di acciaio e cemento, movimento merci e aviazione.
Sarà fondamentale lo sviluppo su larga scala di tecnologie come idrogeno verde e cattura e sequestro di anidride carbonica dall’atmosfera.
Biden inizierà il suo green deal con il potenziamento dell’infrastruttura di ricarica elettrica delle auto: ad oggi sono presenti sul territorio 29mila stazioni pubbliche, la promessa è di raggiungere le 500mila stazioni in 10 anni.
Troppo tempo si è perso nel contrasto ai cambiamenti climatici e non solo per il disimpegno degli ultimi 4 anni di Trump. Quattro anni persi in una sfida che ha nel fattore tempo un elemento fondamentale.