di Giacomo Torresi –
Anche gli influencer chiedono un’organizzazione sindacale, sulla scia di quanto accaduto nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Servirebbe a garantire i diritti dei lavoratori e regolare tariffe e oneri fiscali di un settore in costante crescita.
Dopo i riders sembra sia giunta la volta degli influencer: da Instagram a Tik Tok, sono in migliaia le star del web che chiedono un sindacato di categoria.
Nonostante la figura dell’influencer sia ormai centrale nelle campagne di marketing, manca una specifica regolamentazione riguardo diritti, doveri, tariffe e oneri fiscali.
Una grave lacuna, dato che si tratta di un giro d’affari miliardario, con profonde differenze tra chi approccia ai Social network come secondo lavoro e chi, invece, ha compensi da capogiro.
Negli Stati Uniti e nel Regno Unito il sindacato degli influencer esiste già e regola gli aspetti etici ed economici dei contratti stipulati.
La proposta di Mafalda De Simone
Molti stentano ancora ad ammettere che quello dell’influecer sui Social media sia un vero e proprio lavoro, nonostante il giro d’affari tutt’altro che trascurabile e l’impennata di ragazzi e ragazze che approcciano a questo modo di fare business.
Tuttavia, al momento, la categoria è priva di regole e tutele e gli oneri fiscali non sono ben definiti.
Da questi presupposti nasce la proposta di Mafalda De Simone (influencer campana con oltre 170mila followers): creare una sigla sindacale “che tuteli questo mondo di partite Iva dove i diritti sono un privilegio rispetto alle moltitudini di doveri che si hanno.”
Che si tratti di Instragram, Tik Tok o Snapchat, l’indotto degli influencer è in costante crescita ma il successo non è soltanto una questione di like.
Per eccellere e guadagnare occorre avere competenze di marketing, interfacciarsi con aziende e produttori e interagire quotidianamente con i followers. Un lavoro a 360 gradi che, come sottolinea Mafalda De Simone, merita tutele al pari degli altri.
Il ruolo del sindacato
Oltre ai nomi più noti (in primis quello di Chiara Ferragni) esistono migliaia di micro influencer per i quali guadagnare e farsi strada nel mondo del web è più difficile: si tratta di persone, più o meno note, seguite da un target ristretto e settoriale (ad esempio vegani, amanti dei libri o dei viaggi) i quali vengono contattati da brand e aziende per sponsorizzare prodotti senza, però, avere le garanzie di chi lavora nel campo pubblicitario.
Figure professionali come tante altre che, allo stesso modo, hanno bisogno di tariffari prestabiliti, tutele e sicurezze. Senza contare il problema dell’evasione fiscale: c’è chi ha aperto regolarmente la partita Iva e chi, invece, non dichiara nulla.
Ecco perché serve un sindacato che avvii un percorso a livello nazionale.
Il modello inglese e americano
Fondare un sindacato per gli influencer non è un’idea utopistica e del tutto nuova.
Nel 2020 nel Regno Unito è nato il The Creator Union (TCU), la prima sigla sindacale della categoria con il compito di supervisionare i contratti stipulati con aziende e fornitori, evitare pratiche discriminatorie e regolare gli aspetti economici del mestiere.
Con le medesime intenzioni anche negli Stati Uniti è stato creato l’American Influencer Council (AIC) che garantisce un trattamento etico e paritario alle star del web.
E’ giunto il momento anche per l’Italia?
(fonte: IlFattoquotidiano, TGCom24, Money.it)