Con Marco Carlomagno abbiamo avuto la straordinaria occasione di parlare di tematiche legate al lavoro in Italia, con uno sguardo rivolto al futuro. Oggi ci concentriamo su un fenomeno del tutto nuovo: l’abbandono del posto di lavoro nella pubblica amministrazione. La causa prima sono le destinazioni assegnate non gradite. E poi: salari bassi, formazione lavorativa inesistente e assenza di percorsi di carriera interna.
Fuga dal pubblico impiego: perché?
In un articolo a cura di Vincenzo Patricelli – Segreteria Nazionale FLP – pubblicato sull’Huffpost, e ripreso da La Repubblica su Facebook, si parla di un tema particolarmente urgente. Un fenomeno insolito in Italia dove “il posto fisso” è sempre stato un must da inseguire per “sistemarsi”. Eppure oggi i numeri ci riportano un dato del tutto particolare, quello delle dimissioni dal proprio lavoro pubblico “sicuro”.
La funzione pubblica è il più grande datore di lavoro in Italia, ma molti dipendenti la stanno lasciando o vorrebbero farlo. A quanto pare più di 1 dipendente su 4 (24%) oggi dichiara di voler cambiare aria. Perché? Cosa sta succedendo?
Il motivo dell’abbandono varia a seconda dell’età: la maggior parte dei giovani cerca un lavoro perché desidera maggiore flessibilità e autonomia sul posto di lavoro; i dipendenti più anziani spesso vogliono più tempo con la famiglia o per perseguire altri progetti al di fuori del lavoro; mentre altri semplicemente si stancano di lavorare ogni giorno in un ambiente d’ufficio – non esiste una risposta unica.
Ciò ha portato alcuni esperti a chiedersi se l’Italia possa mantenere le amministrazioni pubbliche ai livelli attuali se questa tendenza dovesse continuare.
Lo stesso stipendio per 30 anni.
“Sono stato un dipendente pubblico per 30 anni. Durante questo periodo ho ricevuto lo stesso stipendio (in realtà, un po’ meno di quanto avrei dovuto) e ho lavorato a progetti che non venivano mai portati a termine”. Lo afferma Carlo V., uno dei molti dipendenti pubblici frustrati a cui abbiamo voluto chiedere della sua esperienza personale.
Ogni anno i suoi capi gli dicevano di lavorare più duramente e più velocemente per ottenere di più ma intorno a lui vedeva sempre meno persone, meno strumenti e meno risorse per farlo. “Quando il nostro team si riduceva a causa di licenziamenti o pensionamenti, ci chiedevano di assumere ancora più lavoro senza darci alcun aiuto aggiuntivo”.
La maggior parte dei colleghi di Carlo sembrava accontentarsi di fare le cose a metà.
Se il reddito non è sufficiente per vivere e far funzionare l’economia familiare, forse è il caso di considerare l’idea di trasferirsi altrove, si dicono oggi i dipendenti come Carlo. La mancanza di opportunità di lavoro in Italia e in altri Paesi significa che molte persone sono in difficoltà economiche e il costo della vita sta aumentando. Secondo il Cost-of-Living Index di Numbeo, una persona single a Roma ha bisogno di un reddito di circa 1.500 euro al mese solo per mantenere i beni di prima necessità come cibo e alloggio. Il salario medio degli italiani è di circa 1.000 euro al mese.
E se nei posti pubblici lo stipendio rimane lo stesso per decenni, mentre il costo della vita sale, ogni anno è normale che maturi un certo istinto ad andare altrove. Ma dove?
Molti dipendenti pubblici stanno cercando una via d’uscita
Alcuni dipendenti pubblici potrebbero pensare di uscire dal settore pubblico trasferendosi in un altro posto di lavoro nella loro attuale città, mentre altri potrebbero pensare di trasferirsi completamente. In ogni caso, stanno solo cercando di fuggire da questo brutale sistema di impiego pubblico.
Il problema si avverte in maniera maggiore al Sud. È una regione assediata da ogni tipo di crisi: economica, politica e migratoria. Il Sud Italia è stato particolarmente colpito dalla crisi economica globale del 2008, che ha portato ad alti tassi di disoccupazione giovanile e a un aumento della povertà. Come ci si potrebbe aspettare, questo ha avuto un effetto a catena sui tassi di criminalità, soprattutto per quanto riguarda i furti. Regioni come la Calabria hanno registrato un aumento a due cifre dei furti d’auto in soli cinque anni (2011-2016).
Così, ecco la tendenza in aumento: cambiare. Rincorrere il sogno di una vita più gratificante. Soprattutto i giovani lasciano il pubblico impiego, alla ricerca di retribuzioni migliori e carriere più significative. Cercano un lavoro più interessante e stimolante. Cercano lavori che offrano maggiori opportunità di crescita e avanzamento. Ed ecco in arrivo le nuove opportunità alternative oggi racchiuse in uno specifico termine: southworking (ne parliamo QUI). In questo periodo, infatti, le aziende italiane cominciano a guardare sempre con più interesse agli “hub di lavoro” al Sud, spazi di co-working o veri e propri uffici con team aziendali dislocati in aree lontane dalle grandi città del Centro-Nord. Un motivo in più per trovare felicità e sicurezza lontani dal pubblico impiego.
L’articolo sull’Huffpost
“Nell’articolo pubblicato sull’Huffpost a cura di Vincenzo Patricelli proviamo a dare una spiegazione a questo fenomeno”, ci dice Marco Carlomagno, Segretario generale presso FLP – Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche. “Un giovane entra al lavoro in un ufficio pubblico dopo aver partecipato a un concorso basato su una sorta di “amplificatio gesuitica”, cioè prove su una serie di materie specialistiche che bisogna conoscere a menadito poiché bisogna dimostrare di sapere tutto di tutto. Dopo pochi giorni o al massimo settimane, si accorge di dover fare mansioni tutt’altro che specialistiche, avulse da ciò che ha dovuto studiare per il concorso, e che la formazione al lavoro vero è inesistente e bisogna “rubare” le competenze agli altri colleghi.
A tutto ciò, si aggiunga che non solo il salario è basso, ma che parlando con gli altri lavoratori il neo assunto scopre che chi già presta servizio in un ufficio pubblico dopo quindici o venti anni di lavoro prende lo stesso stipendio d’ingresso, che non esistono percorsi di carriera interna, che le amministrazioni sono incapaci di valutare le prestazioni se non per finta, per far contento il ministro di turno, e quindi che la propria professionalità non sarà mai e poi mai valorizzata”.
Esiste un problema
Esiste quindi un problema mai affrontato di organizzazione dello Stato. Il Ministro Brunetta, come già fatto oltre un decennio fa, ha voluto costruire la casa del lavoro pubblico partendo dal tetto anziché dalle fondamenta. Pensa alla misurazione della produttività senza provare ad affrontare il problema di come questa si genera e, quindi, rischia di attrarre solo coloro che non hanno alternative, e non sono certo i migliori. Vedasi il famigerato “concorso per il Sud”.
Insomma, se posso lavorare a un salario basso, ma con delle prospettive economiche e di carriera, faccio il sacrifico della “gavetta”, ma, se mi accorgo che le mie condizioni economiche e di lavoro saranno permanenti, butto subito la spugna piuttosto che fare la vita del working poor per sempre.
E non è finita, perché oltre a questo, nel pubblico impiego c’è anche un problema di governance generale. Non vi sono principi manageriali e valori fondanti che facciano da guida ai dirigenti, dal canto loro spesso più attenti a perpetuare il loro status, attraverso il rispetto pedissequo dell’adempimento burocratico, che a svolgere il lavoro per il quale sono i più pagati al mondo.
Come scrive il professore di Harvard Arthur C. Brooks nel suo ultimo libro, i tre “macronutrienti” della felicità sono la soddisfazione, il piacere e il significato. Laddove però, oltre a non poter aspirare a una carriera, non puoi dare significato a ciò che fai e trarre soddisfazione dal tuo lavoro, né in termini di valorizzazione della professionalità né di significato ultimo di ciò che fai, perché ti è subito chiaro che questo non è mirato alla soddisfazione dei bisogni dei terzi amministrati, ma solo ad adempiere a norme astruse, non puoi essere felice e allora guardi altrove oppure accetti la situazione ma solo se hai la possibilità di farlo, anche male, ma vicino casa, con buona pace del Ministro Brunetta e di quanti si ostinano a parlare di pubblico impiego senza conoscerlo o darsi la pena di studiarlo per davvero.